Giusto compenso, per le partite Iva resta un miraggio
Le aziende devono dare il giusto compenso ai lavoratori precari, in proporzione alle mansioni che svolgono. È il sacrosanto principio introdotto nell’ultima e contestatissima Riforma del Welfare (la legge n. 92 del 2012), che porta la firma del ministro Elsa Fornero. Per combattere lo sfruttamento del lavoro flessibile, spesso sottopagato, il ministro Fornero ha fissato nuove regole per le retribuzioni di alcuni collaboratori precari, che in futuro verranno protetti dal rischio di ricevere uno stipendio da fame. Peccato, però, che la nuova legge si sia concentrata soltanto su una (seppur importante) figura professionale: quella dei collaboratori a progetto, che annovera tra le proprie fila oltre 670mila persone, secondo una stima elaborata qualche anno fa dall’istituto di ricerca Isfol. Restano invece escluse le false partite Iva, cioè quei liberi professionisti che lavorano in forma autonoma soltanto sulla carta. Si tratta di almeno 350mila lavoratori (sempre secondo le stime dell’Isfol) che hanno la partita Iva ma, di fatto, lavorano per un’unica azienda committente, alla quale sono legati da un forte vincolo di subordinazione: devono rispettare determinati orari, svolgere mansioni ripetitive e seguire quasi sempre gli ordini di un capo. Devono fare, insomma, le stesse cose che fa di solito un qualsiasi dipendente quando va in ufficio o in fabbrica.