Il Fisco gli chiede la lista dei clienti e lui rimane senza lavoro

Ancora un altro episodio emblematico di come l’ingerenza pesante del Fisco possa avere effetti drammatici sul lavoro di una partita Iva. Il caso è quello di un consulente del lavoro inseguito da un ente di riscossione per debiti arretrati. Ebbene, l’ente in questione ha pensato bene di farsi consegnare l’elenco completo di tutti i suoi clienti che sono stati contattati per sapere se avessero pendenze economiche con il consulente. In questo modo ha imposto a questi soggetti di versare direttamente all’ente il dovuto. Il risultato finale di tutta questa vicenda è che i clienti, avendo scoperto che il loro consulente aveva dei problemi con il Fisco, l’hanno abbandonato. Quindi la nostra partita Iva, non solo ha pagato, come giusto che sia, i suoi arretrati, ma come conseguenza più dannosa, si è vista privare della propria clientela. A questo punto il consulente ha preso la decisione di ricorrere alla Cassazione, per vedersi riconoscere i danni per un’azione che, a suo parere, avrebbe violato pesantemente la sua privacy.
La Cassazione dice, no!
Per il nostro lavoratore autonomo le cose non sono andate come sperava. La Cassazione infatti, con la sentenza 17203/2013, ha rigettato le sue istanze su tutta la linea, stabilendo una serie di condizioni che dovranno far riflettere tanti liberi professionisti con una clientela numerosa. Innanzitutto, secondo i giudici, la richiesta della lista dei clienti è assolutamente legale e non viola nessuna privacy. L’ente di riscossione è un soggetto istituzionale, che per fini anch’essi istituzionali, ossia la riscossione delle tasse, può tranquillamente utilizzare liste private. Ma come se questo non bastasse, la Cassazione ha anche respinto la seconda contestazione avanzata dal consulente del lavoro. E cioè che fosse altrettanto illegittimo chiedere ai singoli clienti se vantassero dei debiti con il consulente del lavoro. Anche in questo caso, infatti, ci potremmo trovare di fronte ad una violazione della privacy. Ebbene, leggi e regolamenti alla mano, la Cassazione ha stabilito che anche in questo caso l’ente di riscossione ha agito nell’ambito della legalità. Tra le altre cose infatti, la legge sulla privacy stabilisce che il consenso dell’interessato non è necessario per l’utilizzo di informazioni riservate, quando queste sono utili per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.
Dubbi e perplessità
Di fronte a questa sentenza, che da un punto di vista strettamente giuridico sembra non lasciare spazio a repliche, restano però molti dubbi. Innanzitutto quello riguardante le modalità invasive di un ente di riscossione che può arrivare tranquillamente a distruggere la stessa attività economica di un lavoratore autonomo pur di recuperare il dovuto. Ma se vogliamo comunque restare all’interno dei corretti vincoli di convivenza civile, e considerare che comunque le tasse andrebbero pagate, ci si chiede se nel caso specifico non si poteva operare con un minimo di discrezione in più. Perché chiedere la lista completa e inviare un questionario a tutti i clienti? Non poteva essere operata una cernita dei possibili soggetti da interpellare, anche in base all’entità stessa della cifra da recuperare? Domande che restano senza risposta e che giriamo alle autorità fiscali competenti, affinché in futuro, magari, si possa immaginare di agire in maniera decisamente diversa.