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Quelle mille leggi che ci prendono a pugni in faccia

Fisco 13 Giugno 2013

Sono 288 norme fiscali in cinque anni, in media più di una alla settimana. Questo hanno subìto gli italiani fra la legislatura 2008 e quella 2013, alla faccia della semplificazione tanto invocata: ne avevano già fatto una bandiera i governi precedenti, addirittura con un ministro, il leghista Roberto Calderoli. Poi è diventata una delle parole d’ordine di Mario Monti. Ne parla ora anche il ministro del Lavoro Enrico Giovannini che ha annunciato «a breve» (annunciare sembra una specialità di questo Governo) un grosso provvedimento di semplificazione.

Ce lo ha ricordato il Corriere della Sera citando uno studio di Confartigianato che parla di record della burocrazia per le aziende italiane, senza ricordare che non sono solo le aziende a subire la catastrofe di leggi tanto ingarbugliate che spesso trovarne il bandolo è semplicemente impossibile, ma anche chi lavora in proprio. Le 288 norme, secondo lo studio, in più della metà dei casi (58,7%) hanno complicato la vita a chi lavora, non semplificata, attraverso 29 provvedimenti (spesso lenzuolo) che hanno completamente vanificato le 67 semplificazioni varate nel frattempo. Non sarebbe un caso, dunque, se a una delle normative più complesse e farraginose del mondo corrisponde una delle tassazioni sui redditi d’impresa più alta, secondo Confartigianato ben il 68,3%. Le imposte sul lavoro sono mediamente al 48,6%, 6 punti percentuali sopra la media europea. E mentre in Europa scendono le tasse e il numero di norme, da noi continuano ad aumentare.

 

Male, molto male, perché secondo molti economisti non è solo il livello di tassazione sulle attività produttive a penalizzare gli investimenti domestici ed esteri (e dunque ad allontanare la ripresa) in un Paese, ma anche il livello di incertezza sulle norme fiscali. Per esempio secondo Elena Panaritis, la più nota fra gli economisti greci, per oltre 10 anni funzionario della Banca Mondiale, docente in alcune delle più prestigiose università mondiali e oggi residente in Germania non ci sono molti dubbi: più spesso una nazione cambia le tasse sulle attività produttive, meno investimenti attrae. Per esempio l’attuale crisi della Francia, a suo dire, è dovuta in larga parte agli otto ritocchi della tassazione sulle imprese e il lavoro  degli ultimi due anni. Nello stesso periodo la Grecia ha vissuto 16 revisioni della normativa fiscale.

 

Ma quanto impatta la burocrazia folle che c’è in Italia sulla sua capacità di attrarre investimenti? Qui c’è qualche sorpresa. Non necessariamente negativa. Ogni anno la Banca Mondiale stila una classifica dei Paesi più attraenti per attirare nuovi investimenti (Doing Business Survey): l’ultima è quella 2013 (in realtà riferita a dati 2012). La classifica prende in considerazione 185 nazioni. Se ai primi tre posti sono saldamente in testa Nuova Zelanda, Australia e Canada e gli Stati Uniti sono al 13° posto, l’Italia è “solo” in 84° posizione. Peggio della Francia (27°) ma certamente meglio della Germania (106°), dell’Austria (134°), della Spagna (136°) e della Grecia (146°). Meglio anche della 151° posizione della Cina e della 173° dell’India. Tuttavia su alcune singole voci la nostra posizione precipita: per le tasse sulle imprese risultiamo al 131° posto, sulla facilità di ottenere credito al 104°. La voce dove siamo messi peggio è quella relativa al rispetto delle clausole contrattuali (160° posizione), quella dove figuriamo meglio è il recupero crediti in caso di insolvenza: siamo 31°posto.

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