Studi di settore, storia di una partita Iva che lotta e vince!
Quando gli studi di settore diventano uno strumento di sopraffazione contro i lavoratori autonomi si possono e, in base alla storia che stiamo per raccontarvi, si devono combattere. È quanto dimostra il caso di una partita Iva come noi, un consulente informatico autonomo, che è riuscito davanti al giudice a dimostrare la propria correttezza fiscale e a uscire indenne dal duro confronto con l’Agenzia delle Entrate.
Il caso
La storia si svolge a Milano e ha come protagonista un giovane consulente informatico che, in applicazione degli studi di settore – quindi in maniera del tutto induttiva -, riceve un avviso di maggiori ricavi imponibili per 25mila euro a fronte degli 8mila dichiarati. Un rapporto di uno a tre dunque, che fa scattare la tenaglia del Fisco, con l’adozione di un avviso di accertamento. Ma non finisce qui. Il nostro amico, convinto della propria correttezza, decide anche di non presentarsi a dare spiegazioni presso l’ufficio accertatore. E così la sua vicenda finisce dritta davanti al giudice della Commissione tributaria provinciale di Milano. La quale con sentenza 17/40/13, ascoltate le sue spiegazioni, gli dà ragione e annulla l’avviso di accertamento.
Giustificazioni plausibili
Di fronte al giudice, il consulente informatico porta una storia che forse può assomigliare a tante altre che ogni anno si verificano nel nostro Paese. Racconta di aver iniziato l’attività di libero professionista solo da qualche anno e che, accortosi che il lavoro autonomo non decollava, aveva accettato presso una società un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, un cosiddetto co.co.co., proprio nell’anno di imposta di riferimento. E precisa poi che, nell’anno in questione, aveva dunque svolto consulenza autonoma per un solo cliente e per un ammontare pari appunto a circa 8mila euro. Insomma, spiegazioni più che plausibili, e che hanno convinto il giudice a dargli ragione. E, soprattutto, a dare torto al Fisco imponendo il ritiro dell’avviso di accertamento.
Ricordate la sentenza della Cassazione?
Tra l’altro, il giudice della Commissione tributaria di Milano ha tirato in ballo anche una ormai celebre sentenza della Cassazione che ha imposto all’Agenzia delle Entrate l’onere della prova quando si tratta di accertamenti compiuti non con prove certe, ma in via induttiva, come appunto sono gli studi di settore. In questo caso dunque, il consulente informatico ha avuto ragione anche a non presentarsi presso l’ufficio accertatore per offrire documentazione e memorie in propria discolpa, convinto delle proprie ragioni e del fatto che dovesse essere il Fisco a portare prove certe della sua eventuale evasione. Senza contare, ha aggiunto il giudice, che nessuno può essere condannato per il semplice fatto di non presentarsi a un colloquio di chiarimento e che, come previsto dalla Costituzione, in ogni caso ogni cittadino deve poter dimostrare davanti a un tribunale la propria innocenza.
Morale della storia
L’insegnamento che ognuno di deve trarre per lottare contro gli studio di settore è che, in determinate occasioni, finire davanti a un giudice per dimostrare la propria innocenza può essere quanto mai efficace. Troppo spesso succede che, di fronte a studi di settore che ci assegnano livelli di ricavi maggiori di quanto abbiamo realmente percepito, veniamo indotti, magari anche da commercialisti fin troppo realisti, a pagare le tasse in base alle stime induttive del Fisco, e quindi più di quanto dovremmo. Il tutto per evitare che magari il Fisco si insospettisca e ci venga a controllare. Ebbene, se siamo nel giusto vengano pure gli ispettori, perché ci penserà il giudice di una commissione provinciale a darci ragione, forti anche di una sentenza della Cassazione sempre più storica.