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Una storia di contrabbando

Contenziosi 22 Febbraio 2013

“Questa è una situazione di contrabbando…” Cantava Enzo Iannacci e me lo aveva anche detto quel bambino di III C alle scuole elementari “Puddu” di Prato, interrompendo una mia interrogazione aveva chiesto il permesso di fare una domanda che, in realtà, si trattava di un’affermazione: “… te tu sei un pirata vero!” . Io gli chiedo “Da cosa te ne sei accorto?” Lui mi risponde: “Me lo ha detto uno di quarta… noi non si è detto a nessuno, ma stai attento si vede! Ai pirati manca sempre qualche pezzo, una mano, un occhio o una gamba… e te tanto a posto non sei!”

 

Chiaramente si riferiva al mio trascinarmi le gambe con difficoltà per una paralisi neuro muscolare che mi ha preso all’età di 4 anni. Questo aneddoto costituisce fonte di grande ilarità per tutti quelli a cui lo racconto, ma sono orgoglioso soprattutto per quell’immagine di pirata che lascio nella fantasia dei bambini. Mi pare singolare che oggi sia un magistrato in un’aula di tribunale a farmi la stessa osservazione, non ho ancora deciso come prenderla, di sicuro… quelli della quarta elementare erano dei chiacchieroni!

 

Ecco com’è andata. Nel 1999 l’uragano Lenny, in maniera del tutto imprevedibile, fece un improvviso dietrofront e si abbatté inaspettatamente su St Croix, nelle Isole Vergini americane e sorprese la barca a vela di 20 m. Clan Again non perfettamente ancorata al suo ormeggio e così il vento e le onde la portarono sulla spiaggia senza misericordia. La barca venne danneggiata con una falla sulla linea di galleggiamento che fu rattoppata alla meno peggio. Restò ormeggiata a muffire, destinata a fare una brutta fine.

Siamo nel 2007. La crisi economica e il folle meccanismo degli studi di settore che ignoravano la crisi e pretendevano che gli affari andassero come sempre, mi avevano costretto a chiudere la ditta artigiana di apparecchiature elettroniche con cui mi ero mantenuto per trent’ anni. Inoltre un aggravamento delle mie condizioni fisiche e un innalzamento del livello di follia nello standard del sociale che mi circondava, mettevano decisamente a rischio la mia sopravvivenza. Come per la barca Clan Again sembrava che anche per me non fosse più possibile prendere il mare. Ma, come diceva O. Wilde, “se non si mira all’impossibile non lo si raggiungerà mai”.

 

Un giorno qualcuno, incurante delle difficoltà dell’impresa e ancor più di quanta disperazione mi potesse regnare nell’animo, mi fece arrivare notizia della possibilità di riportare Clan Again in Italia e non sembrò nemmeno stupito di trovarmi disponibile a farlo, anzi addirittura entusiasta.

Un buon conoscitore di uomini poteva scientemente ritenere che solo un capitano con le stampelle potesse a buon diritto riuscire nell’impresa. La difficoltà era grande, ma sentivo chiaramente di non avere alternative. La barca Clan Again era l’immagine di me stesso. Quindi perché affondare senza lottare?

Oltre tutto mi si apriva un grande e insperata possibilità di lavoro: se fossi riuscito a rimettere in sesto la barca e a riportarla in Italia, il proprietario mi avrebbe fatto lavorare come skipper. L’opportunità della vita.

 

Sono partito per l’avventura e dopo mesi di durissimo lavoro per rimettere in sesto la barca, il 1 giugno 2009 , in compagnia di due amici, ho lasciato l’isola di St Croix alla volta dell’Europa.

Dopo una navigazione quanto mai difficoltosa abbiamo raggiunto le Azzorre (Portogallo) in un’alba dorata con mare calmissimo. Siamo entrati nel porto di Horta alle 5,30 del mattino. In capitaneria di porto faccio vedere i documenti della barca e quelli dei marinai e mi rilasciano il cosiddetto “costituto di arrivo” che consente di considerare la barca arrivata nelle acque CEE in temporanea importazione, cosa che dà diritto ad ameno 18 mesi di permanenza nelle acque dei Paesi CEE. Messi a posto i documenti ci siamo diretti verso Cadice in Spagna. Arrivati lì ci siamo presentati in capitaneria e ci hanno informato che non erano richieste ulteriori formalità perché Horta è già Europa e quindi andava bene il “costituto di arrivo” che avevamo fatto lì. Siamo ripartiti per passare Gibilterra e il 29 agosto, dopo quasi tre mesi di navigazione, mi ormeggio presso il Cantiere Benetti nel porto di Livorno.

 

Appena arrivati, fra tanti amici e curiosi venuti a salutarmi, si sono presentati anche agenti della Guardia di Finanza che mi hanno chiesto direttamente di vedere la bolla doganale con l’Iva della barca pagata! Quando gli ho detto che ero appena arrivato dai Caraibi, quindi in regime di importazione temporanea, hanno fatto dell’ironia neanche troppo velata, in pratica mi hanno riso in faccia.
Forse con la barba lunga, la stampella e l’aria un po’ trasognata dopo tanto mare dovevo sembrare davvero la reincarnazione di un grande pirata. Doveva essere davvero difficile non arrivare alle stesse conclusioni di “quelli della quarta elementare ”. Storicamente il Portogallo è sempre stato connivente con pirati e contrabbandieri, quindi il documento doganale rilasciato in Portogallo (art.561 reg CEE) per loro non aveva alcun valore. Perché io sono un contrabbandiere, si vede… Così si è proceduto al sequestro della barca e al mio rinvio a giudizio per contrabbando.

 

La Guardia di Finanza alla prima udienza dichiarava che: “…È stata notata un’imbarcazione sospetta, abbiamo chiesto al comandante i documenti, e questi non ha saputo dare giustificazione della sua presenza a bordo nè della barca in Italia, tanto più che avrebbe dovuto fare il costituto di arrivo nel primo porto toccato nella comunità europea …”. Peccato che io il costituto lo avevo fatto appena toccato terra in Portogallo che, come tutti sanno, fa parte della Comunità europea da sempre e lo avevo mostrato ai finanzieri.

So per certo di non aver commesso errori e che sono stati fatti tutti gli atti necessari e possibili. Vi assicuro che dal 30 agosto 2009 tutte le mattine mi sveglio cercando di spiegarmi perché mi è venuta la folle idea di portare la Clan Again in Italia. Potevo fermarmi in Portogallo, Spagna o Francia e nessuno mi avrebbe rotto le scatole e reso la vita impossibile.

Invece, devo alle autorità fiscali italiane quasi quattro anni di incubo giudiziario e soprattutto di mancato lavoro.

Se alla fine mi daranno ragione voglio proprio vedere chi mi ripagherà di tutti questi anni persi.

Gianni Raddi

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