Una pensione da fame! Ecco quello che ci aspetta
Molti contributi da versare oggi, con il rischio di ricevere domani una pensione da fame, o quasi. Si prospetta così, purtroppo, l’avvenire di non pochi lavoratori autonomi con partita iva iscritti alla Gestione Separata dell’Inps: il fondo previdenziale pubblico, destinato a tutti i liberi professionisti che non hanno un proprio Ordine o Albo di categoria.
La Riforma Dini
La colpa è delle riforme pensionistiche approvate in Italia negli ultimi decenni, che hanno trasformato il mondo del lavoro autonomo (o almeno una parte) in una vera e propria “gallina dalle uova d’oro” che finanzia l’intero sistema previdenziale italiano. La riforma più importante di tutte è quella voluta 17 anni fa dal governo di Lamberto Dini (la legge n.335 dell’8 agosto 1995), che ha introdotto un nuovo sistema di calcolo delle pensioni pubbliche. E’ il metodo contributivo che funziona secondo un principio molto semplice: in futuro, l’ammontare degli assegni erogati dall’Inps dipenderà esclusivamente dalla quantità di contributi che il lavoratore ha accantonato nel corso della carriera (e non più, come avveniva fino alla metà degli anni ’90, dagli ultimi redditi dichiarati prima di mettersi a riposo). Chi più versa, più guadagnerà durante la vecchiaia. E’ questa la logica che ispira il metodo contributivo e che, almeno in teoria, non fa una piega.
Assegni Ridotti
Non manca, però, l’altra faccia della medaglia. Oggi, gli iscritti alla Gestione Separata pagano una montagna di contributi pensionistici (in proporzione al reddito), cioè una quota del 27,72% dei compensi dichiarati, che salirà a circa il 33% nel 2018, per effetto dell’ultima riforma del lavoro voluta dal ministro del welfare, Elsa Fornero. Ciononostante, c’è il rischio concreto che questa massa enorme di versamenti all’Inps non basti per costruirsi una rendita consistente in vista della vecchiaia. Secondo alcune stime (elaborate da molti istituti di ricerca) gli assegni pensionistici pubblici incassati dalle partite iva potrebbero non superare, in molti casi, il 60 o 70% (o addirittura il 50%) dell’ultima retribuzione dichiarata prima di mettersi a riposo (si vedano le tabelle in fondo all’articolo). A prima vista, sembra un paradosso. A ben guardare, però, non è difficile capire il perché di questo scenario un po’ cupo che si intravede all’orizzonte. Oggi, a causa della crisi economica, molti liberi professionisti vivono infatti in condizioni precarie, cioè lavorano un po’ a “spizzichi e bocconi”, con redditi bassi e altalenanti oppure, nel caso di chi ha problemi di salute, anche con lunghi periodi di inattività. Dunque, in valore assoluto, i contributi versati da molte partite iva potrebbero essere troppo pochi, anche se rappresentano comunque una porzione consistente dei magri compensi incassati ogni anno. Per questo, a causa del metodo contributivo, c’è chi rischia davvero di ricevere una pensione da fame nei decenni a venire.
Tartassati più dei dipendenti
Inoltre, quando la riforma del lavoro voluta dal ministro Fornero entrerà a regime, gli iscritti alla Gestione Separata subiranno un’altra beffa: pur dovendosi aspettare un assegno pensionistico assai magro, saranno costretti a pagare una quota di contributi addirittura superiore a quella (elevatissima) che oggi è a carico dei lavoratori dipendenti.
Per rendersene conto, basta analizzare un esempio concreto:
prendiamo il caso di una partita iva iscritta alla Gestione Separata che guadagna una somma di circa 41mila euro lordi all'anno: nel 2019, questo libero professionista dovrà versare all'Inps una contribuzione del 33% circa, corrispondente a poco più di 13.500 euro ogni 12 mesi.
Per i dipendenti, secondo le leggi attuali, è previsto più o meno il pagamento della stessa quota di contributi, cioè il 33% della retribuzione . Va ricordato, però, che soltanto una parte di questi versamenti (poco più del 9%) pesa direttamente sulle tasche del lavoratore e viene trattenuto dalla sua busta-paga lorda, mentre un altro 24% circa viene pagato direttamente dall’azienda. Tuttavia, per calcolare il reddito su cui vanno poi applicati i contributi dell’Inps, l’impresa può dedurre (cioè sottrarre) dalla retribuzione lorda alcune importanti voci di costo, tra cui il Tfr (cioè la quota di stipendio accantonata ogni anno per la liquidazione). In realtà, dunque, un dipendente e la sua impresa pagano un po’ meno del 33% della retribuzione, proprio grazie a queste deduzioni: secondo i calcoli effettuati qualche anno fa dall’Acta (Associazione Consulenti del terziario avanzato), su un costo del lavoro lordo di un dipendente attorno a 41mila euro, la cifra che l’azienda deve versare all’Inps ammonta nel complesso a 11.500 euro circa.
C’è dunque una differenza di circa 2mila euro rispetto alla somma che dovrà invece sborsare ogni anno (dal 2019 in poi) una partita iva che ha lo stesso reddito ed è iscritta alla Gestione Separata. Sembra davvero un’assurdità, visto che i dipendenti godono di molte protezioni che gli autonomi non hanno: dallo stipendio garantito a fine mese ai congedi per malattia sino alle ferie pagate.