Natuzzi e artigianato, un patrimonio gettato al vento

Creare un miracolo industriale dal nulla. Farlo diventare famoso in tutto il mondo. Poi gettarlo nella polvere. Sembra questa la parabola a cui stanno andando incontro gli stabilimenti della Natuzzi, marchio di divani famoso in tutto il mondo, con un fatturato che sfiora i 500 milioni di euro all’anno. Ma ora le cose vanno male e l’azienda ha annunciato l’intenzione di licenziare 1.700 dipendenti impiegati negli stabilimenti di Ginosa e Matera. Eppure, la parabola commerciale della Natuzzi, nasce dall’intelligente sfruttamento di professionalità locali, lucane e anche pugliesi, di primissimo livello. Stiamo parlando di tutti quei tappezzieri e falegnami, che circa venti anni fa, furono coinvolti in un progetto che aveva dell’incredibile: rendere disponibile a tutte le tasche il divano in pelle, un prodotto che fino a quel momento era esclusiva di chi poteva spendere grandi cifre. Fu così che tanti lavoratori autonomi lucani e pugliesi lasciarono la propria libera attività e si inserirono in un contesto lavorativo in cui proprio il valore dell’artigianato è stato il marchio di fabbrica che ha reso i divani della Natuzzi famosi in tutto il mondo.
Dall’artigiano alla catena di montaggio
Nel tempo il modello produttivo della Natuzzi si è trasformato e dall’artigianato si è passati a una industrializzazione spinta, una sorta di catena di montaggio in cui le professionalità e le capacità di migliaia di artigiani sono andate perdute. A questo si è aggiunta la decisione, maturata nel tempo, di delocalizzare sempre più nel mondo la produzione. Oggi la Natuzzi vanta stabilimenti in Cina, Brasile e Romania. E purtroppo, duole doverlo ammettere, tra la qualità dei prodotti realizzati tra Puglia e Basilicata e quella dell’estero non c’è più differenza. Anche grazie a procedimenti produttivi per lo più standardizzati. Ovvio che in un momento di crisi come quello attuale, il nodo dei costi produttivi, decisamente più alti in Italia, venisse al pettine. Manodopera a basso costo e Fisco più leggero hanno spinto la Natuzzi a privilegiare sempre più le produzioni all’estero. Da qui a considerare ormai superflui gli stabilimenti italiani il passo è stato breve. Qualche mese fa, sotto la regia del governo Monti, era iniziata una trattativa che aveva l’obiettivo di traghettare in maniera indolore qualche migliaio di lavoratori fuori dalla Natuzzi, attraverso l’inserimento in altre aziende o con il supporto degli ammortizzatori sociali. Qualche giorno fa, però, la situazione è precipitata e l’azienda ha annunciato 1.700 esuberi, gettando nel panico migliaia di famiglie.
Un intero distretto sull’orlo del baratro
In gioco infatti, come accennato, non c’è solo il destino dei lavoratori oggi impiegati nel settore, ma quello di un’intera zona, a cavallo tra le provincie di Matera e Taranto, dove la Natuzzi in questi anni ha rappresentato il trampolino di lancio per un salto di qualità economico straordinario. Ora, se questa impresa dovesse decidere di chiudere i battenti, all’orizzonte ci sarebbe soltanto l’incubo del nulla. Migliaia di lavoratori, ormai ex artigiani ed ex lavoratori autonomi, si ritroverebbero senza stabilimenti e contemporaneamente impreparati a rimettersi sul mercato del lavoro con le vecchie professionalità di tappezzieri o di falegnami. Un vero e proprio dramma che si consumerebbe tra l’altro in una Regione come la Basilicata da sempre in lotta per difendere quelle poche opportunità di lavoro che sono offerte dai mercati. E pensare che Pasquale Natuzzi, il grande profeta dell’industria del divano al Sud, ha avuto con la sua terra d’origine sempre un legame molto stretto, diremmo affettivo, avendo sempre sostenuto di voler tutelare livelli adeguati di occupazione. Ora tutto sembra marciare in direzione opposta. Eppure esistono gli spazi per considerare l’annuncio dei 1.700 esuberi una semplice provocazione. Il 5 luglio il governo ha convocato al ministero dello Sviluppo Economico azienda e sindacati per tentare di riaprire il dialogo e la trattativa. E non si può che sperare che si arrivi a una soluzione che salvaguardi il maggior numero di posti di lavoro. Ne va del destino economico di un’intera Regione.