Telecom agli spagnoli, Alitalia ai francesi. E a noi chi ci compra?

I titoli dei giornali e dei telegiornali ci raccontano che Telecom Italia verrà certamente acquistata dalla spagnola Telefonica e Alitalia, probabilmente, andrà (come doveva succedere già anni fa) ai franco-olandesi di Air France. Il che, a nemmeno due giorni dalla notizia che l’Inter di Moratti è passata al magnate indonesiano Thohir, suona come una buona notizia. Perché se gli stranieri ricominciano a puntare quattrini sull’Italia vuol dire che forse il peggio è passato. E che il nostro Paese torna a essere interessante per gli investitori internazionali. Questo è un buon sintomo anche per i professionisti, anche se solo indirettamente, perché i quattrini rimessi in circolo possono portare benefici a tutta l’economia.
Dunque una buona notizia: si mettano il cuore in pace i numerosi politici di ogni schieramento che nelle ultime ore hanno cominciato ad agitare lo spettro dell’italianità, della lesa sovranità nazionale. Non ci hanno capito nulla: uno dei dati più allarmanti della crisi è che negli ultimi cinque anni gli investimenti esteri in Italia sono crollati quasi del 15% in termini assoluti e al netto dell’inflazione il dato è ancora più disastroso.
Tuttavia qualche dubbio rimane. Gli spagnoli di Telefonica comprano l’indebitata Telecom Italia, ma sono indebitati né più né meno. E i soldi per la rete a banda larga, investimento essenziale per rilanciare la competitività dell’Italia da oggi per i prossimi dieci anni chi ce li mette? Da notare che la proprietà della rete, malgrado la privatizzazione e i vari passaggi di mano di Telecom (quando è stata venduta dallo Stato era una delle aziende più floride d’Europa), rimane dell’ex operatore pubblico. In Corea del Sud, invece, è stata nazionalizzata e lo Stato ha usato i soldi della privatizzazione per finanziare la rete 2.0. Conclusione: negli ultimi cinque anni il nostro divario di competitività con la Corea è aumentato di 430 punti. Manca qualcosa. E non un particolare secondario…
Secondo dubbio: investono spagnoli, francesi, per fortuna indonesiani. E i tedeschi? Il partner europeo che va meglio e che indubbiamente ha più guadagnato negli ultimi cinque anni dalla nostra crisi, sull’Italia non punta un centesimo. Perché? Nei prossimi giorni si aspettano ficcanti analisi e doviziose interviste in merito. C’è chi dice l’inefficienza burocratica, chi accusa l’instabilità politica. Un imprenditore tedesco da anni in Italia, che non vuole comparire, lo spiega così: «L’Italia è come il vostro maggior partito, il Pd. Si discute molto di regole, tendenzialmente all’infinito. Ma non si applicano mai. Capire che cosa si può fare veramente è impossibile. Per gli italiani va bene, se ne fregano e fanno quello che gli pare. Ma scordatevi che un tedesco investa a queste condizioni».
Terzo dubbio: cosa cambia per i professionisti, gli autonomi, le microimprese? Che ci guadagnano veramente dall’internazionalizzazione? Fino a oggi l’impressione è stata che in Italia, per le professioni ordinistiche, si sia voluto proteggere dalle ingerenze esterne un mercato del lavoro chiuso, terrorizzati dalla sindrome dell’idraulico polacco, cioè dall’idea che persone di altri paesi dell’Unione potessero venire a rubarci il lavoro. Oggi, che di lavoro anche per gli autonomi ce n’è sempre di meno, si registra un significativo cambio di passo: l’altro giorno a Bruxelles Andrea Camporese, presidente dell’Adepp (Associazione degli enti di previdenza e assistenza delle professioni ordinistiche), ha chiesto ufficialmente al presidente del gruppo di lavoro per l’apertura delle professioni liberali della Commissione europea Marco Kuravic di aprire i nuovi bandi di gara internazionali anche ai professionisti italiani fino a oggi sostanzialmente esclusi. Finalmente sembra diventato chiaro che l’Italia non può avere paura di importare professionisti, ma che di avvocati, commercialisti, architetti, ingegneri, veterinari, giornalisti ne ha troppi e deve mettersi in mente di esportarne un po’ verso l’Europa.