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Irap, dobbiamo pagarla se abbiamo collaboratori fissi

Tasse 20 Aprile 2013

Tra tutte le imposte che i professionisti, e più in generale tutte le partite Iva, sono costretti a pagare, la più discussa e controversa resta l’Irap. Infatti è legata all’organizzazione dell’attività di lavoro e all’eventuale utilizzo di manodopera, per questo spesso è stata al centro di contestazioni. Questa volta torniamo a parlarne perché ad occuparsene è stata la Corte di Cassazione che, come sappiamo, quando va a sentenza è un po’ come se facesse nuove leggi. Nello specifico le notizie non sono positive, soprattutto per i professionisti.

 

L’outsourcing che costa caro

Il caso preso in esame dalla Suprema Corte riguardava un professionista che chiedeva la restituzione dell’Irap versata negli anni 2001-2003, e che gli era stata addebitata poiché parte del suo lavoro l’aveva affidato all’esterno del suo studio, in particolare il servizio di segreteria e altre attività connesse. In pratica aveva usufruito dei cosiddetti servizi in outsourcing. Ebbene, la Corte di Cassazione, con la sentenza del 12 aprile 2013 n. 8962, ha stabilito che in questo caso ricorrono gli estremi per cui l’Irap debba essere pagata.

 

I presupposti dell’autonoma organizzazione

Analizzando il caso del professionista i giudici hanno ritenuto che ci fossero tutti gli elementi per parlare di quella che tecnicamente viene considerata autonoma organizzazione. Ricordiamo che il presupposto affinché scatti l’onere del pagamento dell’Irap, è appunto quello dell’autonoma organizzazione, in pratica la dimostrazione palese che il professionista o più in generale il lavoratore autonomo con partita Iva, utilizzi collaboratori in maniera continuativa per la propria attività. Per la precisione è bene ribadire che la legge stabilisce, in maniera precisa, che i requisiti necessari a individuare l’autonoma organizzazione prevedono che il professionista:

  • sia responsabile dell’organizzazione e non debba essere inserito in strutture organizzative riferibili a responsabilità e interessi altrui;
  • impieghi beni strumentali eccedenti il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione o si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui.

Queste sono state sufficienti a condannare il professionista: vediamo perché.

 

Collaborazione continuativa e spese ingenti

La Cassazione, analizzando i rapporti che il professionista aveva stabilito con strutture alle quali si appoggiava per attività in outsourcing, ha accertato un paio di elementi che sono risultati determinanti per la decisione finale. Innanzitutto le collaborazioni si sono dimostrate di carattere continuativo. Il professionista, infatti, utilizzava in maniera abituale il lavoro svolto in strutture esterne al suo studio professionale, come ad esempio l’attività di segreteria. Inoltre, i compensi di questi lavori erano molto elevati, il che lasciava intendere che fossero assolutamente irrinunciabili nell’ambito delle attività svolte dal professionista stesso. Di qui una sentenza che ovviamente farà scuola e potrà riguardare migliaia e migliaia di altri professionisti. Quando ci si appoggia in maniera abituale a strutture esterne per far svolgere lavori in outsourcing, si corre il rischio serio di dover pagare l’Irap, perché si configurano gli elementi di una struttura organizzata presupposto per il pagamento della tassa in questione. Si tratta di un elemento che nell’ambito del bilancio di un professionista dovrà essere tenuto in giusto conto per evitare possibili brutte sorprese.

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