Roma, 3 dicembre 2025 – La Corte di Cassazione, con una sentenza depositata ieri mattina a Palazzo di Giustizia, ha fatto chiarezza su un tema delicato: quando un atto giudiziario non si può impugnare subito, chi si sente danneggiato deve aspettare di poterlo fare in un momento successivo del processo. Un principio che torna spesso nelle aule di giustizia e riguarda i limiti dell’impugnabilità degli atti e le strategie che le parti devono adottare per tutelarsi, spesso pazientando fino a un passo decisivo.
Cassazione: tempi stretti? Non sempre si può fare ricorso subito
Dal dispositivo firmato dalla Corte Suprema, guidata dal giudice Pietro Sgubbi, emerge un messaggio netto. Quando la legge non permette di impugnare subito un atto – come ad esempio un’ordinanza interlocutoria – “si deve aspettare che arrivi un atto definitivo o comunque impugnabile”. In parole semplici: il nostro sistema processuale, salvo casi particolari (come i provvedimenti sulla libertà personale), non garantisce sempre un intervento tempestivo. Non si può ricorrere contro ogni tipo di decisione appena emessa.
La motivazione è chiara: “Chi si ritiene danneggiato dovrà far valere le sue ragioni davanti al provvedimento finale o a quello successivo che racchiude anche l’atto contestato”. Questa linea, ormai consolidata dalla giurisprudenza della Cassazione, evita procedure frammentate e processi troppo lunghi a causa di ricorsi continui. La Corte ribadisce così il principio della “concentrazione delle impugnazioni”, che ormai conosciamo bene.
Gli avvocati reagiscono: “Aspettare costa caro”
Dal mondo degli avvocati non sono mancate le critiche. Per Alessandra D’Ambrosio, amministrativista romana, “il problema vero è la posizione di chi subisce un danno immediato e non può far nulla se non aspettare”. Molti giuristi concordano: rimandare l’impugnazione rischia di trasformare un danno in qualcosa di irreparabile.
L’ordinanza arriva in un momento in cui il dibattito sulla riforma della giustizia civile è molto acceso. Potrebbe riaprire la discussione tra esperti e politici sui tempi e sulle modalità delle impugnazioni. Un magistrato civile – che ha preferito restare anonimo – racconta: “Non è raro che tra l’atto contestato e quello effettivamente impugnabile passino mesi, a volte anche anni”. Ma la Corte resta ferma su una cosa: la rapidità del processo va bilanciata con la necessità di una decisione finale stabile, senza continui stop causati da ricorsi intermedi.
Le regole del gioco: pochi atti si possono impugnare subito
Il codice di procedura civile e penale stabilisce chiaramente quali sono gli atti che si possono contestare immediatamente: sentenze, ordinanze cautelari o restrittive della libertà personale e qualche altro caso specifico previsto dalla legge. Tutti gli altri – come gli atti interlocutori o quelli istruttori – devono aspettare la fine del processo per essere messi in discussione. “È una tutela dilazionata”, ha spiegato ieri su Radio24 Sergio Zaninelli, docente alla Statale di Milano. “Non piace agli avvocati, lo capisco, ma serve a mantenere coerenza nel sistema”.
Certo, c’è qualche margine per casi limite: a volte la Corte può intervenire prima se il danno è grave. Ma il principio base resta quello ribadito nell’ordinanza.
Il confronto sulle riforme: tempi più veloci?
Intanto, mentre a Monte Citorio si discute sul pacchetto riforme della giustizia, vari esponenti del Consiglio Nazionale Forense chiedono di rivedere i tempi delle impugnazioni per rendere più efficace la tutela dei diritti. Si parla soprattutto di modifiche mirate per casi urgenti o particolarmente gravi. Ma fonti ministeriali vicine al Guardasigilli Nordio ricordano che ogni apertura deve tenere conto dell’equilibrio del sistema giudiziario: “Se allarghiamo troppo le possibilità di ricorso rischiamo solo di allungare ancora i tempi dei processi”.
Per ora – ed è quanto trapela dai corridoi del Palazzo di Giustizia – la Cassazione tiene duro sulla linea tradizionale: bisogna affidarsi all’atto successivo impugnabile. E nel frattempo… si continua ad aspettare.
