Milano, 21 dicembre 2025 – Il governo ha messo mano oggi a una modifica importante sui criteri dell’obbligo di rendicontazione di sostenibilità. Da gennaio, dovranno preparare il bilancio non finanziario soltanto le imprese con più di 1.000 dipendenti in media e un fatturato netto annuo superiore a 450 milioni di euro. Una svolta netta, giustificata da motivi di proporzionalità e per ridurre il carico burocratico. Cambia quindi la platea delle grandi aziende italiane coinvolte. Il tutto arriva in un momento delicato, dove la sostenibilità aziendale è sempre più al centro delle attenzioni pubbliche e delle norme.
Il testo pubblicato oggi sul sito del Ministero dell’Economia ridefinisce i parametri fissati dalla direttiva europea sulle informative di sostenibilità (CSRD), che l’Italia ha recepito nel 2024. Finora, secondo la prima versione del decreto, l’obbligo di rendicontazione non finanziaria riguardava tutte le società quotate e quelle che superavano almeno due dei tre limiti indicati dall’Unione Europea. Ora la soglia sale: solo chi ha avuto una media di oltre mille dipendenti e un fatturato sopra i 450 milioni – spiega una nota diffusa questa mattina alle 9.30 da via XX Settembre – dovrà preparare il report ESG nel dettaglio.
Dal ministero guidato da Giancarlo Giorgetti spiegano che si tratta di “evitare un onere troppo pesante per le medie imprese e concentrare l’attenzione su chi ha impatti ambientali e sociali più significativi”. Insomma, le aziende più piccole possono tirare un sospiro di sollievo.
Le prime stime di Confindustria parlano chiaro: questa nuova regola interesserà solo il 2% delle imprese italiane, poco più di 500 realtà tra gruppi industriali, società di servizi e holding. Tutte le altre – soprattutto piccole e medie imprese spesso a gestione familiare – rimangono fuori almeno per ora.
Molte aziende avevano già iniziato volontariamente a fare la rendicontazione ESG, ma ora l’obbligo sarà solo per i colossi. “Siamo d’accordo con una sostenibilità seria – commenta Alberto Dal Poz, vicepresidente degli industriali –, ma questi nuovi limiti mettono ordine tra trasparenza e sostenibilità economica. Non si può chiedere a una media impresa lo stesso sforzo economico di una multinazionale.” Parole che arrivano dopo la polemica della scorsa primavera, quando le associazioni avevano chiesto criteri più adatti alla realtà italiana.
I sindacati, in particolare la Cgil, non vedono la cosa con favore. Gianna Fracassi, segretario confederale, avverte che “escludere centinaia di aziende rischia di creare due velocità nella transizione ecologica. Le informazioni sull’ambiente devono essere disponibili anche nei distretti produttivi più piccoli”. La preoccupazione riguarda soprattutto la trasparenza su temi sociali come sicurezza sul lavoro e pari opportunità.
Dall’altra parte ci sono le principali associazioni ambientaliste. Legambiente parla chiaro: la nuova soglia “oscura la filiera industriale”, lasciando troppo spazio alle medio-piccole imprese che spesso lavorano come subfornitrici dei grandi gruppi. “Senza regole chiare per tutti – sottolinea Stefano Ciafani – rischiamo che molti progressi restino solo sulla carta”.
Le nuove regole entreranno in vigore già dal bilancio dell’esercizio 2025, con prima pubblicazione prevista nella primavera 2026. Le aziende coinvolte – banche, utility, grandi manifatturiere come Enel, Eni, Stellantis – dovranno dettagliare i loro impatti ambientali (emissioni CO2, gestione rifiuti), le risorse umane (turnover, formazione) e la catena del valore. Tutto secondo lo standard europeo ESRS.
Chi lavora nel settore si prepara a un periodo intenso: “Stiamo aggiornando i sistemi informativi e formando il personale interno”, racconta Marco Tognoli, CFO di una multinazionale milanese. Le società dovranno inoltre rivolgersi a revisori esterni per garantire la correttezza delle informazioni non finanziarie.
Resta aperta la questione dell’armonizzazione europea: alcuni Paesi UE hanno scelto soglie più basse (Francia e Germania chiedono almeno 500 dipendenti), creando possibili squilibri nel mercato unico. Dal Mef assicurano che seguiranno attentamente i lavori della Commissione Ue e sono pronti a modificare i criteri “tenendo conto delle esigenze del nostro tessuto produttivo”.
Nel frattempo il dibattito resta acceso. Chi vede nella decisione una difesa dell’impresa italiana teme però effetti negativi sulla reputazione a medio termine. Sarà nelle prossime settimane – con l’arrivo dei primi report – che capiremo se questo equilibrio tra sostenibilità, competitività e trasparenza reggerà davvero.
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